Il 30 gennaio del 1945, governo Bonomi, si discusse della concessione di diritto di voto alle donne su proposta di Palmiro Togliatti (Partito Comunista) e Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana).
L’Europa ancora in guerra, l’Italia sotto l’occupazione tedesca, questo è lo sfondo della riunione del Consiglio dei Ministri che portò all’approvazione del suffragio femminile.
La maggioranza dei partiti si dichiarò favorevole (ad esclusione di liberali, azionisti e repubblicani), così il 31 gennaio 1945 fu emanato il decreto legislativo n. 23 che conferiva il diritto di voto alle donne italiane che avessero almeno 21 anni. Le uniche escluse erano citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza: le prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati».
Solo un anno più tardi, col decreto n. 74 datato 10 marzo 1946, le donne non soltanto sono ammesse al voto come elettrici ma possono anche essere elette se compiuto il venticinquesimo anno d’età. Le elezioni politiche del 2 giugno 1946 si svolsero a favore del Referendum istituzionale monarchia-repubblica. Ma non furono le prime. Qualche mese prima infatti si tennero le amministrative comunali nelle quali si registrò un’affluenza superiore all’89 per cento. Già alle prime amministrative vi furono donne elette nelle amministrazioni locali: Gigliola Valandro (DC), Vittoria Marzolo Scimeni (DC) a Padova, Jolanda Baldassari (DC), Liliana Vasumini Flamigni (PCI) a Forlì. Vennero inoltre elette le prime due donne sindaco della storia politica italiana: Ada Natali (Massa Fermana) e Ninetta Bartoli (Borutta).
Nella classifica mondiale dei paesi che per primi approvarono il suffragio femminile l’Italia non è però certamente la prima. In testa c’è la Nuova Zelanda (1893), poi l’Australia e i paesi scandinavi, la Russia (con la Rivoluzione d’Ottobre), la Gran Bretagna e la Germania dopo la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1920.
Daniela Siano