Guerra e pace in Henry Kissinger

Non è possibile una crisi di governo la prossima settimana: la mia agenda è già piena. Henry Alfred Kissinger è un personaggio dalla parabola irripetibile.

Capace di suscitare sentimenti e valutazioni diametralmente opposti, Kissinger si è affacciato in sordina sulla scena della politica internazionale e ne è uscito da protagonista di prima grandezza. Per alcuni è un genio della diplomazia, taluni lo considerano la quintessenza del realismo politico contemporaneo, altri ancora un’astuta contraffazione.

Kissinger è stato l’europeo più potente, ammirato e criticato della storia degli Stati Uniti d’America. Talmente europeo per formazione culturale, da ambire alla trasformazione dell’America eccezionalista in una potenza simile a tutte le altre potenze egemoni del passato; talmente ambizioso per indole, da mirare al mutamento strutturale del profilo politico della patria del wilsonismo: da “splendente città sulla collina”, l’America universalista avrebbe dovuto riconcepirsi come Stato egemone di una specifica parte del globo, con il proprio interesse nazionale da difendere e un approccio dichiaratamente geopolitico e relativista alle relazioni con gli altri Stati, prima fra tutti l’Unione Sovietica. Il realismo kissingeriano è una parentesi del Novecento americano.

Come Theodore Roosevelt, anche Henry Kissinger ha segnato un’eccezione alla tradizionale condotta diplomatica degli Stati Uniti: prima e dopo, l’astoricità e i valori ortodossi dell’America sulla scena internazionale sono tornati a caratterizzare la retorica e gli schemi mentali dei suoi massimi dirigenti. Vi è un legame sostanziale che unisce il periodo precedente e quello successivo alla distensione dell’era Nixon: questo è dato dalla concezione ideologica e militarista del confronto con l’Unione Sovietica, in un’ottica sostanzialmente immutata rispetto ai canoni globali della dottrina Truman e che si riaffacciano, aggiornati, nell’era Reagan.

La parabola politica di Doctor Henry passa gradualmente dal 1968 al 1976, dal keynesismo militare dei Democratici, impantanatosi in Vietnam, al ripensamento profondo della struttura del sistema internazionale, che l’amministrazione Nixon introduce.

Segretario di Stato sotto le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford, premio Nobel per la pace nel 1973. La sua famiglia, di origine ebraica, lascia la Germania nel 1938 in seguito alle persecuzioni antisemite dei nazisti e si stabilisce a New York. Kissinger ottiene la cittadinanza statunitense nel 1943; qui per proseguire gli studi serali, di giorno lavora come operaio. Lo stesso anno viene ingaggiato come traduttore per il tedesco da un organismo di controspionaggio. Nel 1950 ottiene summa cum laude il B.A. allo Harvard college; nel 1952 ottiene il M.A. e nel 1954 il PhD. entrambi presso la Harvard University. Entra in politica avvicinandosi a Nelson Rockfeller e nel 1968, diventa consigliere di Richard Nixon, poi vincitore delle elezioni presidenziali.

Diventato Segretario di Stato si adopera per l’allentamento della tensione con l’Unione Sovietica e negozia il trattato SALT ( che garantiva la fattiva collaborazione commerciale e creditizia e l’intesa politica incentrata su un reciproco riconoscimento delle sfere di influenza in Europa) e l’Anti-Ballistic Missile Treaty. Nel 1971 compie due viaggi segreti in Cina per preparare il viaggio di Nixon del 1972, con il quale si avvia la normalizzazione delle relazioni tra USA e Repubblica Popolare Cinese. Nel 1973 viene assegnato a Kissinger e al vietnamita Le Duc To il premio Nobel per la pace per l’avvio della composizione del conflitto vietnamita, premio rifiutato da Le Duc To per il protrarsi del conflitto che successivamente si aggrava.

Nel periodo dello scandalo Watergate, Kissinger risulta uno dei più popolari membri del governo e alle dimissioni di Nixon nel 1974 rimane alla segreteria di Stato nell’amministrazione Ford. Dopo la conclusione dell’amministrazione Ford, Kissinger non ricopre più alti incarichi, pur partecipando ad attività di gruppi politici come la Trilateral Commission e svolgendo attività di consulente, conferenziere e scrittore. Dal 2000 è membro onorario del Comitato Olimpico Internazionale.

Nel 2002 il presidente George W. Bush lo nomina presidente della commissione incaricata di chiarire gli eventi dell’11 settembre 2001; Kissinger si dimette dalla commissione il 13 dicembre 2002. Quali sono state le cause della fine del kissingerismo? C’è chi sostiene che la causa primaria stia in Kissinger stesso, nel suo ideologico realismo e negli effetti paradossali che ciò alla lunga comportò. Kissinger agiva in nome dell’osservazione realistica dei rapporti di forza e della de-ideologizzazione della relazione con Mosca in un’ottica risolutamente relativista. Ma finì per riporre eccessiva attenzione al legame esclusivo con l’Unione Sovietica: parlava di sistema multipolare, ma ragionava in termini di sistema bipolare; si ritrovò a leggere il particolare periferico con la lente dell’universale bipolare.

Di certo, Kissinger non riuscì a radicare nel popolo americano una visione matura, europea della potenza a stelle e strisce. A nostro avviso, invece, la parentesi realista di Henry Kissinger si chiuse per due ordini di motivi. Kissinger conseguì gli obiettivi che giustificarono l’avvento della sua linea di politica estera ed esaurì in tal misura la sua missione diplomatica in senso stretto. Tuttavia, per ironia della sorte, vide amplificare la forza d’urto dei suoi oppositori e ridurre la propria capacità persuasiva verso l’opinione pubblica, per cause estranee al suo operato.

Il Watergate, le dimissioni di Nixon, il tremendo deficit di fiducia verso l’amministrazione che ciò ingenerò, lo scarso carisma di Ford e in concausa l’efficace propaganda neoconservatrice screditarono moralmente il profilo culturale della diplomazia kissingeriana all’interno degli U.S.A.. Le vicende interne alla sua amministrazione e non il suo realismo, hanno segnato il fallimento dell’acid test – la prova della legittimazione interna delle scelte di politica estera – che il docente di Harvard nato in Germania aveva così bene definito nei suoi studi su Metternich e Bismarck.

Francesco Martini