Il pensiero post-strutturalista nell’estetica dell’arte contemporanea.
Ero studente all’Accademia di Belle Arti di Napoli quando nel lontano 1991 lessi un articolo sulla rivista Flash Art dal titolo “La nuova estetica francese”. Fu una piacevole scoperta tanto che al termine degli studi proposi l’argomento come tesi di laurea alla docente Adachiara Zevi.
In questo memorabile articolo Robert Fleck proponeva una mappa, al quanto esaustiva, sul pensiero post e neo modernista francese. La generazione post-strutturalista di Foucault, Lyotard, Deleuze, Baudrillard, Virilio, ecc., veniva presentata come costitutiva del carattere “non linguistico e autonomo dei fenomeni visuali”. In altre parole si commentava l’evolversi di un’estetica che anziché nascere “dal discorso si sviluppava a partire dall’immagine”. La parola d’ordine era autonomia “fra il visibile e il dicibile, fra la vista e la parola”. Con Lyotard (vedi il suo “Discorso, figura” del 1971) ebbi modo di capire quanto la filosofia fosse legata all’arte contemporanea, in particolare quando mi fu chiara la nozione di “figurale” (contro il figurativo), laddove si intendeva cogliere non ciò che veniva rappresentato dalla pittura attraverso una traduzione linguistica, testuale dell’immagine ma quello che la pittura, oggetto del desiderio, in una sorta di figura in sé di autopresentazione, rende il visibile irriducibile a qualsiasi definizione. In seguito lo stesso Lyotard ha espresso, soprattutto negli scritti successivi di impostazione neokantiana, una serie di considerazioni sulla natura riflessiva dell’arte contemporanea. Egli è giunto alla conclusione che dalle avanguardie l’arte si è rivolta a se stessa, rinunciando ad ogni pretesa di rappresentazione della realtà o meglio definendo il proprio statuto in forma di “attualizzazione sensibile” solo ed esclusivamente attraverso il proprio essere materia quale strumento di ricerca infinita. In altre parole se alla realtà la pittura si rivolgeva per scorgerne l’essenza più intima, venuta meno questa esigenza, poiché di fatto non esiste nulla che si possa ricercare oltre “l’apparenza” del sentire, allora l’arte appare legittimata a rivolgersi non all’esterno ma all’interno del proprio esistere. Questo “spostamento” della pittura ha generato nel filosofo francese un rinnovato interesse verso il concetto di Sublime. Quest’ultimo non nasce in quanto limite (limite dell’immaginazione rispetto alla ragione) ma, se associato all’esperienza dell’arte moderna, costituisce la possibilità stessa della materia artistica di “rappresentare…l’irrappresentabile”; come? Rendendo l’esperienza estetica come incessante ricerca critica di nuove e stimolanti soluzioni compositive su ciò che non può essere rappresentato, dunque l’irrappresentabile, che a sua volta diventa oggetto di ricerca. Insomma è proprio grazie ad un sublime critico che l’arte moderna ha attuato uno slittamento di senso , ma non in riferimento ad una dimensione trascendentale ma, esclusivamente, attraverso le sensazioni, per entrare di diritto nel mondo della sperimentazione, dove nulla è definito con presunzione di assolutezza.
Questa immanenza creativa sperimentale si ritrova anche negli scritti del filosofo Gilles Deleuze. Quest’ultimo però si rivolge alla “sensazione” come statuto necessario, oggettivo, dell’atto creativo (Francis Bacon, logica della sensazione). L’atto creativo avviene attraverso la sensazione, o meglio la sensazione in quanto evento, agisce sul corpo (che qui non va inteso come oggetto) operando delle vere e proprie deformazioni che si determinano in stati di intensità e in soglie di prossimità tra l’uomo e l’animale. Allo stesso modo la forma della sensazione rifugge dalla narrazione o dall’illustrazione per essere un composto di forze che prorompe all’interno di un rapporto di piani colorati che si intersecano tra loro (questo vale per Bacon ma anche per tutta l’arte contemporanea in generale). La pittura o in generale l’arte, ha con la sensazione un rapporto “intensivo” che gli consente di sfuggire da ogni stabilità conclamata di significati assoluti e immutabili. Si tratta piuttosto di metamorfosi a cui la pittura sottende, essendo un composto di sensazioni in continuo divenire (si passa da una sensazione all’altra e ciò che affiora sul corpo dell’opera sono quelle forze che altrimenti rimarrebbero latenti, inoltre “se c’è somiglianza” con un oggetto o una figura “lo si deve solo al fatto che la sensazione si rapporta al suo materiale…”, colore, pietra, marmo, legno, tela e non a ciò che rappresenta). Gli effetti di superficie, esseri incorporei a cui Deleuze fa riferimento, non appartengono all’Idea ( qui intesa come IDEA Platonica) poiché rispetto ad essa incarnano la DIFFERENZA: questi effetti si riscoprono sulla superficie delle cose come “eventi incorporei” non generati dall’Idea, ma differenti rispetto ad essa (il rosso lanoso del tappeto, oppure il verdeggiare del prato). Sono effetti che agiscono in superficie ed eludono tanto l’Uno ,che li vorrebbe subordinati ad esso, tanto l’Essere che li vorrebbe immutabili. Piuttosto è alla materia che bisogna dar conto. È dalle crepe, dall’impercettibile spostamento di massa, dalle diafane apparenze cromatiche che nasce la possibilità stessa di espressività dei corpi. Come ci fa notare Merleau-Ponty è inutile avventurarci nella profondità delle cose poiché appare evidente come l’esperienza estetica, attraverso l’unione della sensazione e del concetto, si possa esperire per mezzo dell’esperienza stessa( di ciò che accade in superficie) e non attraverso ciò che la rende possibile.
Angelo D’Amato
* FLASH ART, anno XXIV, numero 160 Febbraio/marzo 1991.
* Deleuze – Guattari, “CHE COS’E’ LA FILOSOFIA”, Einaudi, Torino, 1996.