Alessandra Stella – “… tra sospiri di partiture e baci di virgole”

Nata a Bari il 12 Giugno 1996. Timida e riflessiva, così mi definiscono tutti e, di certo, non posso dargli torto.

Mi imbarazza essere al centro dell’attenzione e tendo a scrutare l’altro a fondo prima di potermi aprire e instaurare un dialogo. Sono sempre stata fin troppo tranquilla. Ero la classica bambina che “non dà problemi”: brava e diligente. Fino agli ultimi anni del liceo. Dopodiché, caos. Ho dovuto confrontarmi con una parte di me che era rimasta in silenzio a lungo e che chiedeva a gran voce d’essere ascoltata. Una parte ferita, che ero incapace di riconoscere. Con l’università – sto per terminare gli studi in psicologia – sono emerse incertezze, ho lottato con la mia autostima vacillante, mi sono persa e ritrovata più volte, sgretolata e ricostruita. Nel vuoto e tra i silenzi, scrivere è stata una necessità, un modo per sfogare tutte le emozioni represse e le delusioni. Nel corso degli anni ho coltivato diversi interessi: canto, suono, dipingo e sono stata anche un’atleta di nuoto sincronizzato. L’arte in genere è sempre stata la mia via primaria d’espressione, ma se doveste cercarmi, mi trovereste nelle dimenticanze, nei lapsus e negli atti mancati.

Salve Alessandra e benvenuta nel nostro spazio. Grazie per aver accettato la nostra intervista.

Salve a tutti è un piacere essere qui con voi, vi ringrazio per l’opportunità che mi concedete e il tempo che mi dedicate.

Che cosa significa oggi essere una poetessa?

Mi intimorisce un po’ essere definita una poetessa, non credo di esserlo del tutto. Ho scritto un libro di poesie, ma è perché le parole sono lo strumento tramite il quale mi relaziono agli altri, altri molto lontani e che, forse, non conoscerò mai. Un domani mi piacerebbe dedicarmi ai romanzi, chi lo sa? Datemi ancora tempo per scoprirmi ed imparare cosa voglia dire essere chi sono.

Quando hai scoperto o capito che dovevi scrivere poesie?

C’è stato un periodo molto cupo durante il quale ho sentito la necessità di spiegare le mie ferite. Desideravo essere compresa, tuttavia raccontandomi, a voce, ho collezionato delusioni: la gente, anche chi ci ama, ha la tendenza a ridimensionare, tagliare, minimizzare il dolore. Generandone altro, nel mio caso. Chi tenta di esprimere la propria sofferenza non mira ad essere compatito, bensì chiede di essere visto, perché quando le ombre ti circondano e gli occhi si riempiono di oscurità, la speranza è che ci sia un qualcuno in grado, anche al buio, di riconoscerti. Ancor prima, però, ti chiedi “mi cercheranno?” e, nell’insicurezza, invii segnali, dissemini richieste d’aiuto. La poesia è stato il mio S.O.S: poche parole incisive che potessero lasciare intendere di quanto affetto avessi bisogno.

Ti chiedo una tua definizione del concetto di Poesia.

Credo che la poesia sia un luogo. Un luogo silenziosamente rumoroso in cui i vissuti emotivi di chi scrive e di chi legge s’incontrano e mescolano; in cui, se vogliamo, gli inconsci dell’uno e dell’altro si connettono e comunicano, in un gioco di proiezioni, negazioni e identificazioni. I versi, dunque, divengono custodi di segreti rivelati, sfuggiti alla censura e protetti da un patto intimo tra autore e lettore. Per me, la quiete della poesia è la quiete dell’oceano; il linguaggio della poesia è il canto delle balene: inafferrabile, armonico, delicato e potente. Così, le parole assumono significati specifici all’interno di relazioni diadiche, oltre le quali non si avverte nulla: solo silenzio e voci indecifrabili.

Chi sono i tuoi maestri?

Sono tanti, ma se dovessi scegliere i primi due nomi che mi vengono in mente, direi Merini e Montale. Alda Merini, senza ombra di dubbio, è stata capace di incantarmi, sconvolgermi e straziarmi con i suoi versi intrisi di una corporeità e carnalità potentissime. Leggendola, ho avuto modo di empatizzare con quel corpo ferito e dolorante, che è condizione necessaria alla relazione. Durante il liceo, mi hanno affascinata le opere di Eugenio Montale e la sua descrizione dell’uomo contemporaneo, in preda all’illusione che l’inquietudine possa trovare una spiegazione certa e risolutiva. In particolare, è stata fonte di ispirazione l’idea che sia lo ‘stare’ nella disperazione a permettere una migliore comprensione della realtà.

In che modo il tuo mondo interiore chiede di esprimersi e in che modo lo senti e lo attui attraverso la scrittura?

Giorni e giorni prima che io riesca ad imprimere inchiostro su carta, sento di essere invasa da una sensazione di turbamento, apparentemente ingiustificata. Qualcosa si muove dentro di me ed io non so darle un nome né so identificarne la forma, eppure mi angoscia. Credo questo “qualcosa” sia assimilabile a ciò che Freud chiamava il perturbante e che definiva “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. Al riemergere del rimosso, e alla paura, rispondo scrivendo. Sublimo, per l’appunto. Parlarne, mi aiuta a riappropriarmi del materiale che, sino a quel momento, era rimasto silente. E’ un processo di depurazione grazie al quale la carica negativa, trasformandosi, cessa di rappresentare un pericolo. Così, io mi salvo ogni volta.

L’Italia è ancora un paese di lettori?

In modo diverso, ma sì. Ho fede nelle statistiche, tuttavia, la mia impressione è che si tenda a non tenere in considerazione un importante fattore che ha rivoluzionato l’approccio alla lettura: il web. Mi riferisco agli incredibili movimenti di contenuti culturali che avvengono per mezzo dei social network. Io, per prima, nutro remore nei loro confronti, ma è anche vero si possano trovare degli spazi meravigliosi, dedicati alla condivisione dell’arte. La poesia, in particolare, ha trovato spazio nel feed di tantissimi giovani che cercano spasmodicamente frasi e citazioni in cui riconoscersi e tramite le quali esprimere i propri vissuti. Purtroppo, nelle librerie bisogna scegliere di entrarci. I social network, invece, propongono un ventaglio molto ampio di materiale a cui potremmo essere interessati, promuovendolo e suggerendolo infinite volte.È alla portata di tutti. Ciò può avere conseguenze spiacevoli, come ogni cosa, ma la verità è che viviamo in un contesto profondamente diverso, segnato dalle regole e dai tempi scanditi dal digitale, e al quale stentiamo ancora ad adattarci. Dovremmo modificare l’atteggiamento nei confronti di  tutto ciò che passa attraverso internet che, ora come ora, consideriamo di minore valore. Non è così. E’ solo una novità da padroneggiare e di cui riconoscere le risorse. Sappiamo tutti, però, quanto i cambiamenti sappiano incutere timore…

Che cosa si potrebbe fare per appassionare le persone alla poesia?

Bisogna renderla familiare, perché la poesia vuole parlare a tutti ed è per tutti. La investiamo di una sacralità che allontana, piuttosto che avvicinare i lettori, e che istituisce una sorta di gerarchia. La scuola collabora alla legittimazione dell’idea che la poesia sia per pochi, concentrandosi sui tecnicismi e sacrificando l’aspetto emotivo. Rivedrei quest’impostazione, ormai obsoleta, e valorizzerei maggiormente le riflessioni e la sensibilità personali. Questo perché le emozioni sono un patrimonio collettivo, che non lascia nessuno escluso.

Aldo Palazzeschi scrisse: “Gli uomini non domandano più nulla dai poeti” Quanto può essere vera questa affermazione?

Penso sia molto vera, e per fortuna! Snaturata dal suo contesto, questa frase può indurre a credere Palazzeschi volesse dire che agli uomini non interessa più che i poeti scrivano. È fuorviante. I suoi versi, invece, penso si leghino a quanto ho detto prima riguardo alla sacralità di cui è investita la poesia. I poeti sono finalmente liberi di esprimersi, divincolandosi dalle regole di una moralità tipica dei grandi autori di una volta. Palazzeschi scrive anche “E lasciatemi divertire!”, perché la scrittura non è più solo “insegnamento” da affidare ai maestri, ma è emozione, è dinamica e impossibile da relegare tra le mura di norme immutabili.

La poesia può ancora salvare il mondo? 

Sono le persone a salvare il mondo e, per farlo, hanno bisogno di essere salvate a loro volta. La poesia e l’arte assolvono a questo compito. E ci riescono, senza alcun dubbio.

Come nasce la tua prima silloge “Non ci sono che ombre”? 

Le poesie che fanno parte della raccolta sono state scritte nel corso di un anno e mezzo, circa. Non prevedevo di pubblicarle, le ho scritte per me stessa, sebbene siano dedicate ad una persona in particolare. Cercavo un modo per spiegare il mio dolore, come ho già detto, volevo essere vista nell’orrore, perché credevo di essere tutta lì e che fosse lì anche la mia bellezza. “Non ci sono che ombre” è nata scoprendomi, odiandomi e perdonandomi.

Quali sono le idee che vuoi esprimere in questa tua opera?

Ho cercato di difendere la bellezza, che è insita nelle fragilità dell’essere umano. Fragilità non è sinonimo di debolezza, ma credo sia uno squarcio oltre il quale è possibile intravedere la nostra vera essenza, dominata dall’emotività. E’ questo a rendere speciale ognuno di noi. In una delle poesie presenti nella raccolta, definisco “morbidezza” quella parte delicata e gracile che la società, spesso, ci impone di reprimere a favore di una rigidità funzionale allo stare al mondo. Mi piacerebbe che le mie poesie persuadessero il lettore a “stravedere” per le persone, ad amarle, anche nel delirio e nella sofferenza.

Grazie Alessandra, è stato un piacere averti con noi. Ti facciamo i nostri complimenti per la pubblicazione del tuo primo lavoro .

Grazie a voi, è stato un immenso piacere, spero di poter tornare ancora ai vostri microfoni.

Daniela Siano