Non un gioco di parole ma una triste realtà. Ancora una volta nel nostro Paese sono i più “deboli” a pagare per tutti. Deboli sono i portatori di handicap ancora una volta trattati come cittadini di serie B. Il problema da affrontare è più che altro quello di un’integrazione scolastica vera, che non si pieghi a logiche di risparmio economico ed a falsi buonismi.
La verità è che oggi l’insegnante di sostegno è nella maggior parte dei casi considerato un insegnante di serie B, mal preparato (a causa di una formazione specifica tanto costosa quanto scandalosamente insufficiente), disilluso e poco avvezzo a fare tale mestiere. La sensazione che abbiamo avuto assistendo alle nomine in alcune città del Mezzogiorno è stata quella di trovarci di fronte ad una turba di esasperati e di scontenti, che aspettano una elemosina lunga un anno, in attesa di tempi migliori. Se poi si aggiunge un taglio così consistente agli organici di sostegno, attualmente è ammesso il già risicato rapporto di un insegnate di sostegno ogni 138 alunni frequentanti, mentre l’ipotesi che si delinea sarebbe quella di giungere ad un ancor più restrittivo rapporto di 1 a 168, allora capiamo bene quanto sia disperata la faccenda. L’azione di sostegno è l’unico concreto intervento che consenta una reale inclusione scolastica: il danno, culturale prima ancora che organizzativo, sarebbe di enorme portata, con ricadute negative e pesanti sul diritto allo studio delle persone con disabilità e sulle 170.000 famiglie interessate.
Ma anche se i tagli non ci fossero, siamo sicuri che l’attuale sostegno scolastico sia sufficiente e sia davvero efficace? Francamente i dubbi restano tutti. In primo luogo l’attuale criterio non fa alcuna distinzione nel modo di affrontare i casi di disabilità lieve, media e grave, a questo dobbiamo aggiungere che spesso alla disabilità mentale si lega quella fisica, che a scuola non viene affrontata in nessun modo e poi il problema del completamento pomeridiano, ovvero della continuazione delle attività didattiche, logopediche, ginniche correttive che molti disabili devono affrontare privatamente e con spese non indifferenti per le loro famiglie. E viene da chiedersi dove siano le nostre efficientissime e futuristiche ASL. Si perché la legge prevede che una commissione medica dell’ASL di competenza effettui una visita e stili una diagnosi ed un profilo funzionale, su cui calibrare gli interventi didattici. Beato chi vede i dottori prima di due tre mesi (quando li vede) dalla chiamata, per averne una diagnosi approssimativa, spesso molto lacunosa, che ovviamente ci si deve far bastare per due o tre anni. Perché dopo chi li vede più. E che efficacia avrà un intervento didattico basato sulla diagnosi di un paziente visitato due o tre anni prima? Beh sarebbe come dare l’ormone per la crescita a un ventenne che nel frattempo è diventato alto due metri, oppure sarebbe come dare l’aspirina a un malato che nel frattempo ha contratto la broncopolmonite. Gli effetti sarebbero ovviamente catastrofici.
Ma che fine hanno fatto le classi differenziali? E perché non esistono scuole speciali, con programmi veramente efficaci per lo sviluppo psicofisico di tutti quei ragazzi e non solo, che hanno bisogno di attenzioni particolari, di attrezzature e di insegnanti veramente competenti e motivati, che abbiano scelto l’insegnamento ai disabili consapevolmente e non per sbarcare il lunario in attesa di trovare qualcosa di meglio da fare. Ma è possibile che la verità, il bene delle persone, la tutela dei diritti dei più deboli debbano essere sempre coperti da uno spesso lenzuolo di ipocrisia mascherata da politically correct?
Francesco Martini