Enrica Bovi: Tormentata come Virginia Woolf, sola come Emily Dickinson, pessimista come Sartre, fine come Bukowski.
Salve Enrica, benvenuta nel nostro spazio. Grazie per aver accettato di raccontarci la tua storia.
Buongiorno a tutti. Grazie per avermi dedicato uno spazio nella vostra rubrica.
Che cosa significa essere una docente oggi?
Significa farsi trovare pronti, oggi più di ieri. La pandemia ce lo ha fatto capire chiaramente: gli insegnanti hanno dovuto reinventarsi in poco tempo e fare con modalità diversa ciò che già fanno in presenza: esserci! Cambiano i tempi, le generazioni, perfino la didattica ma c’è qualcosa che nel tempo non è mutata: i ragazzi hanno tantissime aspettative nei confronti della scuola, tra cui quella di essere capiti, non giudicati e aiutati. Tanto più in una situazione di emergenza. Sono senza dubbio più “easy”, tecnologici ma hanno sempre bisogno di qualcuno che li guidi e il ruolo dell’insegnante è fondamentale nella loro crescita, soprattutto nella fase in cui passano dall’essere bambini all’essere adolescenti. È chiaro che non si può insegnare a distanza. Istruire, sì. Inoltrare informazioni, certo. Trasmettere nozioni, anche. Ma insegnare è un’altra cosa. Non è buttare dentro roba: che sia in un computer, in una piattaforma cloud o in una testa di un ragazzo. “Insegnare è tirare fuori. Insegnare non è mettere insieme ingredienti, un po’ di grammatica qua, un po’ di storia là: insegnare è mescolare. Muovere energia. Insegnare non è accendere desktop o schermi di cellulari, ma accendere idee, fare domande, svegliare dubbi, far passare la luce”. Per cui ci siamo attrezzati e siamo stati ‘smart’ nel trovare nuove idee per fare scuola anche dall’isolamento in cui eravamo e continueremo a farlo per affrontare le sfide future con la consapevolezza però che insegnare è una cosa che si fa con la presenza e in presenza e che rispetto al passato è sicuramente più difficile ma anche più entusiasmante.
Come si vive in un piccolo paese? Quali prospettive vedi per il futuro dei piccoli centri?
Talvolta è complicato vivere in un paese perché in generale abbiamo pensato di spostare lavoro e servizi in pianura e città e la montagna ha perso quei servizi fondamentali, trasporti, scuole e anche il lavoro. Credo però che in futuro sarà difficile che i piccoli centri come Acerno muoiano. Ci sarà, anche se non facciamo nulla, una parte della popolazione urbana che penserà ai paesi, almeno come residenza provvisoria. Con questa pandemia abbiamo capito che possono essere una grande opportunità. Se l’Italia rigenera i suoi paesi, avrà un beneficio anche nelle città, che sono troppo congestionate.
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi rispetto alla città?
Penso a vantaggi come il silenzio, il buon cibo, l’aria buona. Non sono cose da poco conto. Già la sola aria che respiriamo ogni giorno è un elemento enorme. E poi c’è un sentimento comunitario ancora vivo, anche se un po’ in crisi. C’è quella gentilezza verso i forestieri e attenzione verso il vicino, una umanità si potrebbe dire banalmente. Un paese non è un aggregato di case, è un corpo che ti accoglie, è fatto di braccia e di occhi. Dobbiamo far sì che questo corpo sia sempre più accogliente. Ogni paese ha il suo carattere, il suo umore, la sua bellezza, sono cose preziose. E lo dico con cognizione di causa perché non solo ho vissuto alcuni periodi in città ma anche all’estero e proprio io che ero fuggita, come tanti, da Acerno ho deciso di tornare perché il paese semplicemente non si fa lasciare. La città esiste anche senza di te. Il paese è la tua mano, il tuo dolore. La città ti ospita. Il paese ti conosce. Ma sia chiaro ci vogliono entrambe le comunità. Occorre prendere il buono dai paesi e dalle città, l’Italia è bella con le sue differenze: ci vuole Milano e ci vuole Acerno.
Come hai trascorso il periodo di lockdown? Come ha reagito un piccolo paese alla interruzione della vita comunitaria?
Il lockdown è stato complicatissimo, all’inizio, come credo per tutti. Da docente ho dedicato la maggior parte del mio tempo a raggiungere i ragazzi, è stato un lavoro continuo di studio e ricerca ma anche di riflessione con loro e per loro in un momento così delicato. Non saprei dire con precisione cosa ho imparato, se non a governare un po’ meglio me stessa quando il malessere mi assale, fare la focaccia in casa, accettare che non tutto dipenda dalla mia volontà o dall’esercizio del mio controllo, ricordare che ciò che è difficile per me non è detto sia semplice per gli altri. Accettare la fragilità. Smetterla di pianificare sempre tutto, perché poi la vita accade e ti scompagina le carte, un po’ come pare a lei. Cose così, insomma. Nel paese invece in quei due mesi il silenzio si è fatto ancora più forte. La gente è stata molto rispettosa e sorprendente. Rispetto alle città non è cambiato molto, nel periodo invernale viviamo già una specie di quarantena anche se cerchiamo tutti, a vario titolo, di stimolare la vita comunitaria. Siamo gente forte, abituata a esercitare forme di resistenza.
Come nasce l’idea (a mio avviso fantastica) della “Piccola Libreria Libera”?
Conoscevo il “bookcrossing” la cui idea di base è di lasciare i libri liberi nell’ambiente naturale compreso quello urbano, ovvero dovunque si preferisca, affinché possano essere ritrovati e quindi letti da altri, che eventualmente possano commentarli e altrettanto eventualmente farli proseguire nel loro viaggio. Io ho pensato più banalmente di dare loro un luogo stabile, facilmente riconoscibile, non lasciando quindi al caso la loro fruizione. Ho fatto anche delle ricerche per capire se esistesse già un’iniziativa simile e mi sono imbattuta nell’associazione mondiale no-profit delle “Little Free Library” di Todd Bol che nel 2009 ha costruito la prima cassetta di libri accessibili a tutti, gratuitamente e che ha creato anche la prima rete che cataloga e associa tutte quelle esistenti nel mondo. La piccola libreria libera di Acerno è tra queste, regolarmente registrata con il numero identificativo 26572, che le permette di “dialogare” con le altre librarie e gli altri stewards di tutto il mondo.
Che cosa hai provato nel vedere la Piccola Libreria Libera su google maps?
Non posso nascondere di aver provato grande orgoglio, al di là della soddisfazione personale più di tutto mi ha emozionato legare il nome di questa iniziativa al mio paese. Oggi chi viene ad Acerno, oltre ad hotel e ristoranti, può trovare un posto dove la passione per la lettura e per i libri si lega alla passione per la condivisione delle risorse e dei saperi.
Parlaci del Bau Bar.
L’idea, mediata da esperienze da tempo in uso all’estero, è la semplice risposta ad una concreta esigenza dei cani, soprattutto nel periodo estivo. La presenza di una ciotola d’acqua per dissetare gli animali rappresenta un piccolo segno di civiltà nei confronti dei nostri amici a quattro zampe. È un’iniziativa che mi sta molto a cuore, tesa anche a sensibilizzare la popolazione al rispetto e alla cura degli animali. Naturalmente tra “i pelosetti” le voci corrono, ci si passa l’informazione e a giudicare dalle numerose frequentazioni, al bau bar vengono molto volentieri a ristorarsi!
Nel corso dell’anno promuovi molte iniziative, da Halloween alle celebrazioni civili e religiose. Che cosa ti spinge ad aprire le porte di casa tua alla comunità?
Mi sono sempre occupata, nel mio piccolo, attraverso le associazioni culturali presenti sul mio territorio di promuovere e organizzare piccoli eventi. In questo sono stati da esempio mia madre e mio padre che, nonostante il loro lavoro, nei ritagli di tempo si dedicavano ad alcune iniziative culturali. Quattro anni fa, purtroppo, la malattia è entrata nelle nostre vite, in quella di mio padre in particolare. Avevo due scelte davanti a me: lasciare che il dolore mi piegasse o trasformare quel dolore in speranza, in una opportunità. Ho scelto la seconda opzione, ho scelto di non chiudermi. La creatività è stata il mio strumento, il mezzo attraverso cui ho sempre espresso me stessa, nel pubblico e nel privato. Me ne sono servita per stare meglio, per placare il grido che sentivo dentro, con urgenza, come una valvola che serviva a sfogare ciò che mi faceva arrabbiare, oppure sognare, oppure soffrire.
È stato ed è il mezzo per sdrammatizzare e ironizzare, per scomporre i pezzi e provare a riorganizzarli. E posso dire che mettersi a disposizione della comunità, regalare un sorriso, uno spunto di riflessione, un momento di spensieratezza è stato un buon espediente per sopravvivere, un ottimo scudo dietro cui proteggersi, un vessillo da ostentare se necessario. Non è un caso che abbia anche una grande passione per il teatro che mi ha portata a recitare con compagnie amatoriali e semiprofessionali, un’esperienza che ti porta naturalmente ad aprirti agli altri, a “donarti” per intrattenere e divertire il pubblico.
Perché non hai mai voluto pubblicare il tuo immenso repertorio poetico e narrativo?
Non credo di avere particolari abilità letterarie. In tanti mi esortano a mettere su carta ciò che esprimo perlopiù a mezzo social network, a pubblicare magari un libro ma io mi accontento di “rendere pubblici” solo i miei post, condividendo sui miei profili social stati d’animo, pensieri, la mia personale visione delle cose con l’ironia che mi accompagna e accogliendo opinioni e idee altrui in uno scambio reciproco.
Non pensi di poter lasciare una testimonianza scritta della tua presenza e della tua opera di valorizzazione del territorio?
Non ci ho mai pensato in verità. Forse col tempo potrei considerare una raccolta fotografica che fermi nel tempo ciò che Acerno e viale San Donato hanno ispirato in me, con la speranza che qualcun altro raccolga il tacito invito “a darsi agli altri”, a mettere a disposizione i propri talenti e le proprie energie al servizio della comunità. Ognuno di noi può fare la differenza nel posto in cui vive, ne sono fermamente convinta. Forse è poca cosa ma il fatto che adesso io sia qui in questo spazio a raccontare di Acerno e di ciò che faccio è la dimostrazione che davvero si può contribuire a cambiare, migliorare e valorizzare ciò che ci circonda.
Vedremo mai un tuo Zibaldone?
“Nella vita mai dire mai” si dice, ma non credo succederà. C’è già un capolavoro a firma di Giacomo Leopardi, godiamocelo!
Ti chiedo una tua definizione di cultura.
“La cultura è l’immagine viva e operante dell’essere umano, è come una madre solerte che chiama a raccolta i propri figli, che li vuole attorno, quel tanto che basta per far capire loro che non c’è nulla di frivolo o di troppo inadeguato che non possa essere rieducato, rigenerato, riammesso e consolidato. In ogni cosa che apprendiamo, infatti, c’è una parte della cultura del mondo, degli uomini e donne che l’hanno ideata e creata”.
La bellezza salverà il mondo?
Noi abbiamo bisogno della bellezza: quella conservata nei musei; quella cercata, da sempre, da ogni libro, film, spettacolo. Abbiamo necessità di preservare tutti i modi creativi, ingegnosi, meravigliosi che abbiamo per resistere alla paura e al dolore, per onorare quella ricerca che gli uomini hanno sempre fatto, quell’imperativo a cui hanno, abbiamo sempre risposto, quella resistenza al vuoto, al male, al nulla che abbiamo sempre messo in atto. C’è un proverbio che dice: «Se hai due soldi, con uno compra un pane, con l’altro un fiore per il tuo spirito». Perché per nutrirci abbiamo bisogno di versi, e prose, e immagini, e storie, molte storie che ci aiutino a capire le storie che ci stanno capitando, che ci aiutino a confrontarle con le storie di altri che sono venuti prima di noi, che hanno vissuto altre guerre, altre emergenze, altre tragedie condivise. Dobbiamo sapere come resistere, dobbiamo resistere. Se una soluzione verrà, se un “dopo” verrà, potrà nascere soltanto dalle parole che non abbiamo abbandonato, dalla bellezza da cui non abbiamo accettato di separarci, dalle storie, che nutrono da sempre il nostro stare assieme, il nostro essere umani.
Grazie Enrica, è stato un piacere averti con noi. Ti facciamo i nostri complimenti per la tua straordinaria opera culturale e per la promozione di Acerno .
Grazie a voi, è stato un immenso piacere, spero di vedervi presto in viale San Donato.
Francesco Martini