I millennials o generazione Y sono i nati tra il 1980 e il 2000, sono anche noti come la generazione delle tre C:
Connected (connessi in Rete); Confident (hanno fiducia in se stessi e vogliono avere visibilità); open to Change (aperti al cambiamento). Per arrivare a questa definizione temporale e capire chi sono i millennials, si è passati attraverso numerose ricerche. I primi a dare questa definizione sono stati Neil Howe e William Strauss, che hanno considerato l’arco temporale 1982 – 2004. La Millennial Marketing ha fissato l’intervallo tra il 1977 e il 2000 e il Pew Research Center ha diminuito la forbice fissandola tra il 1981 e il 1996. Pareri discordanti insomma, ma i confini, fisici o temporali, un po’ di sfumature le portano fisiologicamente addosso e quindi poco cambiano due o tre anni.
Per capire la generazione y occorre ragionare non tanto sulla quantità dell’intervallo temporale, quanto piuttosto sulla portata degli eventi che hanno contraddistinto il passaggio dagli anni Ottanta al Duemila. Ci riferiamo all’ultimo ventennio del “Secolo breve“ (Eric Hobsbawm), che proprio dopo il 1980 ha subito una tale accelerazione da diventare addirittura “Brevissimo“. Dal vhs al dvd: un’accelerazione della tecnologia che ha cambiato il nostro modus vivendi. Dalla guerra fredda alle Torri gemelle: uno sconvolgimento geopolitico che ha fatto dissolvere valori e categorie del pensiero tradizionale. La generazione y è stata sottoposta a sollecitazioni e cambiamenti talmente repentini da non lasciar spazio alla riflessione.
Visibilità è iperconnessione
Gli epiteti insomma si sprecano e sono legati alla visione negativa di un’intera generazione, difettosa… a dire dei sociologi. Certo i difetti non mancano ed elencarli tutti sarebbe lungo, per cui basteranno le tre C per inquadrare la pars destruens della nostra analisi. La connessione in effetti è pericolosamente diventata iperconnessione e spesso dipendenza patologica, ma andrebbe attentamente valutata al riguardo l’evoluzione ipertecnologica della società , che taglia fuori da molti campi tutti coloro che tecnologici non sono; una dipendenza allora figlia della necessità.
La visibilità risulta essere anch’essa una necessità, in un mondo che la richiede come requisito di base (un tempo nessuno doveva mettere la foto sul curriculum) per poter esistere; videtur ergo sum, senza contare poi che diventa una necessità dell’animo per chi deve vivere in una società spersonalizzata in cui si è numero più che persona. Quanto al cambiamento, anche qui bisogna considerare una doppia valenza: da una parte la mancanza di schemi e di posizioni, dall’altra la capacità di evolvere il pensiero e di seguire gli eventi senza esserne esclusi o peggio travolti. Siamo d’accordo che le grandi idealità del ventesimo secolo non hanno ispirato la vita dei millennials, ma siamo altrettanto d’accordo sul fatto che le ideologie sono morte quando loro nascevano o erano troppo piccoli per capirle. Non si può piantare una ninfea nel Lago Bajkal e pretendere che sbocci come se fosse alle Comore.
Le tre C: Connected, Confident, open to Change
È in questo contesto, così dannatamente darwiniano, che la generazione y si è formata, è dall’analisi storico-filosofica e geo-politica che bisogna partire per comprendere chi sono i millennials. Una generazione nata nella crisi, cresciuta nello sconvolgimento degli scenari e maturata attraverso i cambiamenti: culturali, politici, sociali, economici, tecnologici. E proprio il cambiamento, la metanoia, rappresenta il punto di forza di una generazione versatile, veloce e fisiologicamente preparata a ogni evenienza. Dicevamo la generazione delle tre C: Connected, Confident, open to Change, qualità fondamentali oggi, in una società sempre connessa, che richiede un’immagine positiva e propositiva, che cambia e si trasforma continuamente. Verrebbe da dire giovani, svitati e vincenti, giovani per età , svitati perché svincolati dai preconcetti e liberi di piacersi, vincenti perché aperti al cambiamento.
Eppure queste qualità, la disposizione al cambiamento, la proiezione al futuro, non ne hanno fatto un modello positivo né tra gli storici, né tra i sociologi. Dagli studi di settore viene fuori sempre la deforme immagine di una generazione pigra e narcisista, incapace di incidere sullo sviluppo degli eventi contemporanei. Ancor più vituperata esce dal confronto con la precedente generazione anni settanta , inutile e lamentosa, ma considerata ancora l’archetipo dell’impegno civico e sociale. Ma allora chi sono i millennials? Gli incompresi iniziatori di una nuova era oppure i poeti maledetti di un nuovo Decadentismo? Al momento la bilancia pende verso la seconda opzione. Pigri, politicamente disimpegnati, smartphone dipendenti, queste sono soltanto alcune etichette affibbiate ai millennials. In un articolo del 2013 su Time, sono descritti talmente narcisisti e pieni di sé, da essere definiti la Me me me Generation.
Alla ricerca dell’equilibrio
Dove c’è una pars destruens c’è anche la pars construens, perché per capire la generazione y bisogna analizzarne anche pregi e qualità. Tanto per cominciare, la capacità di adattamento a svariate vicissitudini: “La precarietà con cui hanno imparato presto a fare i conti ha stimolato una grande propensione al lavoro di squadra” (Alessandro Rosina). Altro pregio non trascurabile è la capacità di condivisione, vero pilastro di questa generazione, in particolar modo per la fascia più giovane. Per loro è naturale condividere pensieri, progetti e passioni, è dalla loro esperienza che nascono gli spazi di coworking, o le formule di sharing economy. Inoltre vale la pena segnalare come siano loro la prima generazione realmente globale, multietnica, multilinguistica e transculturale.
Se abbiamo fatto luce sull’identità della generazione y, dobbiamo però operare una suddivisione in due classi d’età, arbitraria e incompleta , ma necessaria per comprendere il disagio, che affligge i più giovani. Se la classe degli ’80 – ’90 ha trovato, a fatica, la sua strada, quella dei ’90 – 2000 riscontra i problemi maggiori e fatica a trovare equilibrio. Proprio in loro si acuiscono i difetti e i pregi faticano a emergere. Proprio loro portano la bandiera del fallimento, l’epiteto di nullafacenti e il peso di una società decadente. Ma sarà tutta colpa loro? O forse la loro colpa è stata nascere in una società ormai parodia di se stessa, che ostacola la cultura e i rapporti umani a favore del profitto e trasforma gli esseri umani in numeri? Chi più degli adolescenti, adesso neoadulti, poteva essere esposto a questo massacro silenzioso delle coscienze e dei sentimenti?
Sospesi tra benessere economico malessere emotivo
Crescere da nativi digitali non è stato facile per questi ragazzi, teste di ponte di un digitale sperimentale… tutti sanno che la prima serie di qualsiasi merce è più esposta ai difetti, figuriamoci quando si ha a che fare con l’essere umano che è una variabile impazzita. Viene da chiedersi, che cosa sia stato fatto finora a favore di questi adolescenti, catalogati ma non aiutati, sopportati ma non supportati, destruiti ma non istruiti. Ai posteri l’ardua sentenza? In questo caso la sentenza spetta ai contemporanei e neanche parlerei di sentenza in quanto i rimedi ci sarebbero e i tempi per intervenire, pure. Lungi dal voler procedere con il vecchio adagio è colpa della società, bisognerebbe in primis stabilire un assioma fondamentale da cui partire. La società siamo noi e la vita dei più giovani è nelle nostre mani, tutto dipende da come intendiamo usarle.
Se aumentano costantemente tra gli adolescenti le patologie neurologiche e le tendenze psicopatologiche, sarebbe opportuno chiedersi il perché e sarebbe altrettanto opportuno porre rimedio. Siamo la società del benessere (economico… e neanche tanto ormai) e del malessere (sociale ed emotivo). In quest’ottica vanno lette le forme di disagio più frequenti negli adolescenti e nei post-adolescenti (refrattari a entrare pienamente nell’età adulta): la difficoltà a gestire le emozioni e l’abuso di sostanze stupefacenti. Una frequente risposta al disagio emotivo è il ritiro sociale.
La tecnologia per sostituire i genitori?
I giovani cominciano dall’abbandonare lo sport e finiscono spesso per abbandonare anche la scuola, passando le giornate attaccati a un computer. Spesso usano giochi online violenti per esternare l’aggressività repressa; in genere sono ragazzi che non riescono a gestire la rabbia. Così preferiscono allontanarsi dal mondo, per evitare di esplodere. Per quanto riguarda l’uso di sostanze stupefacenti, si sfocia in un fenomeno davvero preoccupante ovvero la perdita programmata di controllo. “Il presupposto è che qualsiasi ragazzo (ma anche un adulto) che sviluppa una fase di abuso non lo fa per stare peggio, per perdere un equilibrio, ma per mantenere l’unico equilibrio per lui possibile” (Federico Tonioni).
Assodato il malessere dei millennials, dobbiamo domandarci come porre rimedio e come creare benessere per i giovani. La prima cosa, che manca decisamente alle nuove generazioni, è sicuramente la presenza. Ci riferiamo soprattutto all’assenza dei genitori che con gli strumenti moderni hanno trovato nuove forme per stare lontani dai loro figli. In queste nuove forme di assenza, la presenza per i ragazzi è garantita sempre più dalla tecnologia. Quanto tempo passano i ragazzi al cellulare o al computer e soprattutto quanto tempo passano i genitori nello stesso modo? Una frase terribilmente ricorrente nei genitori di oggi è: davanti al computer mio figlio non si vede e non si sente. Peccato che per i bambini e per i ragazzi, essere visti e pensati dai genitori sia un bisogno primario. Quando li lasciamo soli con questi strumenti si dissociano, uno stato che è anche normale, ma la cui pericolosità dipende dalla durata.
Quali prospettive per il futuro?
Una situazione che è assolutamente reversibile: nessun bambino preferisce giocare con il computer piuttosto che stare con i genitori. E ci sono ancora molti adolescenti che prediligono il rapporto personale diretto a quello schermato da uno strumento tecnologico. Sono soprattutto quelli che da bambini hanno ricevuto le giuste attenzioni dai genitori e hanno imparato a dialogare e a relazionarsi. Tutto sta alla disponibilità dei genitori a fare la loro parte.
Francesco Martini