La Globalizzazione: una tempesta epocale

Il termine globalizzazione entra nel lessico comune solo in tempi relativamente recenti. Questo termine pressoché sconosciuto

fino agli anni 80 del 900, ha registrato una rapida diffusione. Per globalizzazione possiamo intendere l’insieme di processi sociali il cui esito è l’accorciamento delle distanze, la libera circolazione di informazioni, merci, persone e il superamento degli ostacoli rappresentati dalle barriere internazionali.

Lo sviluppo dei processi di globalizzazione ha portato ad alcuni eventi storici come la fine della contrapposizione politica del mondo in due blocchi, occidentale e orientale, facenti capo rispettivamente a Stati Uniti e Unione Sovietica; la cosiddetta terza rivoluzione industriale, con la nascita di nuovi settori produttivi la trasformazione dei processi produttivi, l’applicazione dell’informatica al settore secondario e terziario; l’evoluzione dei trasporti e delle comunicazioni. Nel 1953 il traffico internazionale di merci per via aerea ammontava circa 350 milioni di tonnellate per chilometro. 50 anni dopo aveva raggiunto i 100 miliardi. Oggi le moderne tecnologie telefoniche permettono di gestire contemporaneamente più di un milione di chiamate.

Le principali protagoniste di questa tendenza sono le imprese multinazionali, ossia quelle imprese che possiedono o controllano attività di produzione di beni o servizi vari paesi del mondo. Il fenomeno caratteristico dell’economia globalizzata è la delocalizzazione, ossia il trasferimento del processo produttivo, o di alcuni sue fasi, in paesi in cui esistono vantaggi competitivi (il loro costo dei fattori produttivi e in particolare della manodopera). Il processo si è verificato soprattutto nei paesi in via di sviluppo e negli Stati dell’Europa orientale. Il tutto ha gradualmente coinvolto anche attività più complesse e professionalità più elevate. E il caso ad esempio di Bangalore in India, città in cui sono presenti numerosi illustri tra cui Microsoft, dove informatici ingegneri indiani altamente qualificati creano software per queste imprese statunitensi.

La delocalizzazione può avere effetti benefici in quanto permette all’impresa di contenere i prezzi di vendita ed a essere perciò più competitiva sul mercato. Inoltre crea opportunità di lavoro nel paese di destinazione favorendo anche miglioramenti delle infrastrutture locali. Ma essa porta con sé anche effetti negativi col verificarsi di come il trasferimento di interi settori produttivi incida negativamente sulle prospettive occupazionali del paese di origine.

La globalizzazione è un fenomeno che suscita dibattiti, prese di posizioni spesso contrastanti. Da un lato vi è una realtà di un mondo spazialmente più compatto, in cui le distanze sono accorciate e la mobilità di cose, persone, idee si sviluppa con estrema facilità. Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione genera l’idea di una comunità mondiale. Per quanto riguarda l’aspetto economico della globalizzazione, si auspica che la delocalizzazione e, in generale, gli investimenti produttivi nei paesi in via di sviluppo, possano ridurre il gap che attualmente li separa dagli Stati più industrializzati.

Tuttavia vi sono dei vantaggi che inducono a una meno ottimistica valutazione del fenomeno. Gli investimenti delle imprese nei paesi in via di sviluppo non si sono distribuiti in modo uniforme ma si sono concentrati in precise regioni del mondo. In molti paesi rimane precaria la situazione del proletariato industriale che lavora con salari bassissimi e senza alcuna tutela sindacale. Alla diminuzione della povertà assoluta si è accompagnato un aumento del divario tra ricchi e poveri; élite vive perlopiù in occidente. La situazione non appare migliore se consideriamo la distribuzione della ricchezza nei singoli Stati, dove si assiste alla graduale proletarizzazione del ceto medio. Gli esperti di statistica descrivono questa situazione utilizzando il cosiddetto coefficiente di Gini, ossia il rapporto tra la concentrazione di un determinato carattere quantitativo presente nella popolazione e la sua ideale equidistribuzione all’interno della stessa.

Tra le varie posizioni critiche troviamo il movimento “no Global”. Esso comprende una vasta rete di gruppi associazioni che si oppongono alla politica delle organizzazioni economiche mondiali e delle imprese transnazionali, proponendo una globalizzazione alternativa, a beneficio dei paesi in via di sviluppo. Alcuni sociologi ritengo più corretta la denominazione “new Global”, dal momento che gli stessi protagonisti nel movimento sostengono che la loro protesta non è contro la globalizzazione, ma per una globalizzazione diversa, rispettosa dell’ambiente. Il movimento “no Global” apprezza le infrastrutture e le tecnologie odierne; per comunicare all’interno e con l’esterno si avvale principalmente di internet. Le critiche sono rivolte alle strutture economiche e politiche, alle imprese transnazionali e all’ azione di alcuni organismi come la Banca Mondiale, accusata di imporre una politica liberoscambista che arricchisce il già ricco e mantiene in una condizione di povertà i più poveri. Il movimento organizza ogni anno i Social Forum per confrontarsi sulle tematiche più importanti e coordinare le attività nei diversi paesi. A livello locale, esso promuove nuove pratiche come il consumo ecosostenibile tramite l’acquisto di prodotti provenienti direttamente da piccole cooperative situate nei paesi in via di sviluppo. In questa galassia “no Global” possiamo collocare il movimento degli “Indignados” e varie associazioni in difesa dei software libero. Tra quelle che lottano tramite il web, con la pubblicazione di dati riservati di carattere politico o economico, spicca il gruppo di hacker “Anonymous”.

Gaetano Sorbo