Al giorno d’oggi abbiamo troppe cose che non ci servono assolutamente a niente.
Spendiamo soldi, accumuliamo oggetti, vestiti nella speranza che questi possano aiutarci a definire chi siamo davvero. Desideriamo avere perché desideriamo essere qualcuno, soprattutto per poterlo dimostrare agli altri, alle persone che ci guardano, alle persone che ci osservano. Lo facciamo unicamente ed esclusivamente perché abbiamo paura del confronto con gli altri, abbiamo paura di risultare inferiori perché, infondo, dentro di noi lo sappiamo che, accumulando oggetti che ci definiscono, in realtà non ci stiamo definendo proprio per un bel nulla.
Stiamo finendo per l’ennesima volta nell’inganno del consumo, nel dogma dell’avere per essere, perché al giorno d’oggi, nella società nella quale viviamo, per essere qualcuno bisogna poterlo dimostrare agli altri, bisogna poterlo manifestare in maniera esplicita all’esterno. Ciò che si viene a creare è una logica di paragone continuo e ne siamo tutti quanti, chi più chi meno, vittime inconsapevoli. Viviamo la vita come una grossa vetrina, dove vince chi ha le cose più costose esposte e, chiedendo in giro, abbiamo tutti quanti in testa l’obiettivo massimo di fare soldi. Sogniamo di riempirci la vita all’esterno perché crediamo che sia l’unico modo per riempirci l’esistenza all’interno.
Nella società di adesso, nel modello consumistico che va per la maggiore, servono individui con bisogni ricorrenti, con bisogni risorgenti, con bisogni che vadano ad alimentare la grande macchina del consumo ed è per questo che le pubblicità ci bombardano e mirano a farci sentire tagliati fuori, rimasti indietro. Ogni volta che c’è un aggiornamento, le pubblicità fanno leva sulla nostra insicurezza, sul nostro bisogno di definire quello che siamo e continuano a ripeterci che l’unico modo per trovare una piena realizzazione di sé è entrare in possesso dell’ultimo modello. La verità è che siamo circondati da cose inutili perché siamo schiavi del confronto con le altre persone, come se il definire sé stessi passasse prima di tutto attraverso ciò che gli altri pensano di noi, è come se fossero gli altri a definire chi siamo e, di conseguenza, pensiamo che l’unico modo per sentirci accettati, per ritagliare un nostro spazio in tutta questa smania di comprare, sia circondarsi di cose.
_______________________________________________________________________________________________________________
“La pubblicità è la menzogna legalizzata”. (H. G. Wells)
_______________________________________________________________________________________________________________
Continuiamo ad essere convinti che per essere sia necessario avere, perché questo è quello che ci viene fatto credere. Il fatto è che nessuno ci verrà mai a dire che pensare di definire sé stessi con le cose che si possiedono è come mangiarsi chili d’aria nella speranza di sentirsi poi pieni. Nessuno ci dirà mai che cercare un’identità nel possesso di beni materiali è la strada sbagliata, è una strada totalmente illusoria per arrivare ad una piena soddisfazione di sé.
Immaginiamo il tutto con due strade: la prima piena di pedaggi da pagare, piena di macchine in coda, piena di traffico ed è quella che prendono tutti, è la strada che porta verso una meta inesistente chiamata felicità assoluta; invece dall’altra parte c’è un’altra strada secondaria, dove ci sono molte meno macchine, dove non c’è traffico, dove ci sono meno pedaggi da pagare ed è una strada che ha una meta molto più concreta, proprio per il fatto che non ha nessuna meta, nessun traguardo da raggiungere. Nessuno ci verrà mai a dire che la strada giusta da prendere è quella con meno pedaggi da pagare e meno obbiettivi da raggiungere, perché non è questo che il modello di consumo vuole. Abbiamo veramente troppe cose intorno a noi, tantissime di queste le abbiamo comprate nella speranza che potessero aiutarci a riempire il vuoto che ci portiamo appresso, ovunque andiamo.
Un approccio da seguire potrebbe essere quello minimalista. Quando si dice minimalismo viene automaticamente da pensare a casi dove non esiste niente, dove non si possiede praticamente nulla. Più che un approccio di rinuncia, più che un approccio di eliminazione, è un approccio che porta a focalizzare la propria attenzione sul valore delle cose, sul significato non simbolico, non economico ma funzionale che viene attribuito alle cose. Quindi questo non significa togliere cose che fanno stare bene anzi, al contrario, significa provare a fare ordine per tenere soltanto le cose che servono, le cose che sono utili, le cose essenziali che non risultino superflue.
Bisognerebbe dedurre molto più spesso il valore delle cose che si acquistano, perché soltanto così ci si può rendere conto che la grandissima quantità di cose che ci circondano, alla fine, non hanno nessun valore reale all’interno di noi ma solo una valenza di confronto sociale, di accettazione sociale: i cosiddetti status symbol. Dobbiamo fare soldi per poterci permettere di avere degli status symbol e capiremo molto bene che questa logica da cui siamo sommersi è tutta incentrata su ciò che si può far vedere all’esterno.
La logica del “quello che hai definisce quello che sei” è la teoria del “quanto l’hai pagato”. Quante volte ci capita di vedere qualcosa che ha comprato un nostro amico e di chiedere prima di qualsiasi altra informazione il prezzo, come se il valore economico di un bene prevalesse su qualsiasi altro valore.
Siamo ostaggi del consumo veloce, siamo vittime di questa idea che la realizzazione nella vita si raggiunga soltanto accumulando ricchezza, di comprare tutte le cose che non abbiamo mai avuto in modo da essere, finalmente, qualcuno. La verità è che non bisogna essere qualcuno per gli altri, occorre puntare ad essere qualcuno per sé stessi, bisogna far venire a galla il significato reale delle cose, non il significato sociale, non il significato economico.
Smettiamola di aggiungere cose all’interno della nostra vita, perché aggiungere crea una marea di superfluo mentre togliere crea l’essenziale che ci serve per ritrovare veramente noi stessi, siate liberi.
Gaetano Sorbo