Quando un artista ritiene che l’ opera che sta producendo o che ha prodotto, soddisfi pienamente quelli che erano i suoi presupposti iniziali?
L’idea iniziale, alla base dell’opera eseguita, è rimasta immutata durante la produzione o ha subito cambiamenti in corso d’opera? Un artista può dirsi soddisfatto del processo che ha portato alla definizione della sua opera, anche in funzione dei cambiamenti che ha dovuto apportare?
Queste e altre domande ci inducono, inevitabilmente, ad affrontare una tematica che esula da un discorso di natura puramente estetica (laddove si consideri solo l’aspetto finito dell’opera, nella sua resa plastica) per entrare, di diritto, in una dimensione dove il fare acquista delle valenze di estrema importanza. Nondimeno si assiste ad un interesse funzionale ai materiali utilizzati per la realizzazione dell’opera stessa. Molte definizioni si attestano su considerazioni che hanno come oggetto l’opera compiuta, scarse , se non esistenti, sono quelle che si rivolgono a cambiamenti, mutazioni o scelte avvenute durante la realizzazione di un’opera.
Cambiamenti dettati da cause accidentali, contingenti, intuitive o predeterminate. Indubbiamente questi cambiamenti , dettati da talune scelte , sono il frutto di un format visivo che ci inducono a considerare buona, all’interno di un determinato contesto organizzativo, una macchia piuttosto che un segno, una forma piuttosto che un colore, in funzione del materiale che si sta utilizzando ( pittura, legno, pietra, carta, ecc.). Un primo indizio in tal senso ci viene dal confronto Bacon/Deleuze dove quest’ultimo intende sfatare l’idea che l’artista possa trasferire sulla tela quello che ha in mente in modo chiaro ed immediato.
In realtà, come ci informa il filosofo , l’artista ha nella sua testa innumerevoli immagini stereotipate, quelle che noi definiremmo clichè, ovvero immagini già viste e riviste. Occorre dunque sgomberare, ripulire, la tela dall’ingombro improduttivo di quel caos di figure, forme, composizioni, oggetti che altrimenti rischierebbero di vanificare ogni sforzo di originalità dell’artista. Questa azione di pulizia passa attraverso un procedimento chiamato diagramma. Quest’ultimo procede attraverso un atto manuale, nient’affatto psicologico, in cui si passa da un caos-germe ad un germe di ordine e ritmo. Sembrerebbe, e di fatto lo è, che la nascita di un quadro presupponga l’allontanamento dalla semplice narrazione in una lotta continua con ciò che abbiamo ereditato e ciò che potrebbe apparire sulla tela, all’improvviso, in apparenza senza coordinate visuali e che l’artista è tenuto a padroneggiare e ordinare.
In questi termini mi sembra di ribadire come la creazione artistica si muova nell’ambito di una dimensione compresa tra la materia e la sensazione. La prima intesa come veicolo d’espressione, la seconda come dato essenziale di produzione. Sia la materia che la sensazione sono inseparabili: e dalla materia che affiorano le sensazioni mentre da quest’ultime la materia acquista potenza comunicativa. Alla materia fa riferimento un altro filosofo italiano Luigi Pareyson che, in tempi non sospetti, indicava nel tentativo, come atto necessario alla creazione, l’estrema ragione di un fare che più che contemplare, cercando altrove le ragioni del suo operare, propone, organizza, progetta l’opera nell’ambito della formatività, ovvero di quel fare inventando il modo di fare.
È sorprendente come Pareyson abbia evidenziato un processo come quello artistico in cui l’inventiva, la creazione passa inevitabilmente attraverso innumerevoli tentativi, ripensamenti, contingenze, nel contesto delle possibilità offerte dalla materia stessa con la quale e sulla quale si sta operando. Il movimento di produzione di un’opera d’arte diventa elemento fondamentale di valutazione in itinere, la materia diventa forma e contenuto attraverso un’organizzazione dell’esperienza artistica che passa attraverso la tentatività e l’inventiva e che sfocia, inevitabilmente, nella costruzione di uno stile personale.
In conclusione va detto che come per la formatività di Pareyson anche nel binomio Bacon/Deleuze, naturalmente con le dovute differenze, sembra ci sia qualcosa di impersonale nella creazione artistica poiché l’uomo appare, ad un tempo, il gestore e il gestito dalla materia specie nella possibilità offerta dalla stessa sul piano delle sensazioni.
Angelo D’Amato