Le terminologie dell’ipocrisia

La seconda metà del XX secolo (così come l’inizio del XXI), si è caratterizzata per un’evoluzione della mentalità tanto chiassosa, quanto effimera e vacua.

Se il cambiamento cui facciamo riferimento, ha investito tutti i settori della nostra vita, lavorativa, culturale e sociale, viene però spontaneo chiedersi quanto sia stato reale e quanto invece propagandato. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo assistito, anche sull’onda delle mode linguistiche, all’uso di nomi e  aggettivi come disabile, persona svantaggiata per designare individui che possono avere delle menomazioni o delle disabilità fisiche e/o mentali; tutto ciò per favorire la rimozione di atteggiamenti di rifiuto o di quelle visioni superficialmente pietistiche e paternalistiche, che sottintendono la tendenza a far coincidere la persona con la sua specifica disabilità. Tale tendenza a sottolineare all’eccesso le condizioni di svantaggio di una persona è soltanto un vuoto sofisma se non si traduce in un aiuto concreto per chi ne ha bisogno.

A nessuno piace sentirsi etichettare, indicare, forse parlare di meno ed agire di più, per quanto semplice e banale possa sembrare, sarebbe la cosa più giusta da fare. E non mi riferisco soltanto alla vexata quaestio dei disabili, diversamente abili, portatori di handicap, menomati, per i quali esistono mille definizioni più ghettizzanti che inclusive, mentre non esistono ancora programmi d’aiuto realmente validi; ma faccio riferimento a molteplici ipocrite definizioni che ci avvolgono e ci sconvolgono ogni giorno nel nostro lavoro, nel nostro vivere quotidiano. Il pensiero non può non andare alla distruzione della nostra istituzione scolastica, sempre più in balia delle farneticazioni di folli pseudo-pedagogisti che ci propinano una definizione al giorno, neanche fossero i proverbi dell’Almanacco della vecchia RAI, perché tutto cambi restando uguale a se stesso. 

Mi viene da ridere e non so neanche se per il divertimento o per l’amarezza di vedere tanta idiozia, a sentir parlare di moduli, di unità didattiche, di unità di apprendimento e chi più ne ha più ne metta per designare il buon vecchio capitolo e il suo fratello minore il paragrafo, oggi messi al bando come vecchi, antiquati ed inadatti.

Ma se i libri di testo, spero che si chiamino ancora così, riportano le stesse divisioni con nomi differenti rispetto ad un passato neanche troppo passato, non sarà successa la stessa cosa di quando le malfunzionanti  USL furono sostituite dalle modernissime e superattrezzate ASL? Forse nella vita non è importante come si dicono le cose, ma quello che si dice.     

Francesco Martini