Il serpente è un rettile munito di squame e carnivoro che si nutre di uova, piccoli insetti e animali.
A prima vista un animale pericoloso dal quale tenersi alla larga. Ma c’è di più, ed è da ricercare nelle sue origini: il serpente è un rettile misterioso, a tratti magico ma quanto mai decisivo per l’evoluzione dell’uomo. Esso incute terrore ma è fonte di attrazione, curiosità…conoscenza. Il serpente infesta i nostri sogni, avvelena le nostre menti, avvolge l’intera nostra esistenza. E’ l’emblema del proibito e l’oggetto del desiderio.
Ma perché è per l’uomo tutto ciò? Che cosa rappresenta il serpente nella mitologia?
IL SERPENTE E IL SUO DUALISMO ANTITETICO
Caratteristica unica del serpente è il suo dualismo antitetico: esso è temuto per il suo veleno, ma quel veleno è utilizzato anche come medicina, esso è sia maschile che femminile, è tanto immobile quanto fulmineo.
Questo rettile, vivendo nel sottosuolo o in radici aggrovigliate, è un animale fortemente legato all’energia terrestre ed è per questo simbolo di vita stessa. E’ inoltre simbolo di conoscenza in quanto, metaforicamente, dall’oscurità riemerge verso la luce. La sua duplicità mitica risale all’Antico Egitto dove personificazione del male è il serpente rosso Seth e del bene è Chneph, una creatura dall’aspetto bellissimo che quando apriva gli occhi illuminava tutta la terra e quando li chiudeva la sprofondava immediatamente nelle tenebre. In Grecia invece il serpente rappresentava conoscenza delle cose future o era fonte di guarigione. Ma il serpente non è solo male o bene, è anche ciclicità, tempo, infinito. Ma quale serpente allora incarnava tutte queste qualità?
L’UROBORO
“Quando vogliono scrivere il Mondo, pingono un Serpente che divora la sua coda, figurato di varie squame, per le quali
figurano le Stelle del Mondo. Certamente questo animale è molto grave per la grandezza, si come la terra, è ancora sdruccioloso, perché è simile all’acqua: e muta ogn’anno insieme con la vecchiezza la pelle. Per la qual cosa il tempo faccendo ogn’ anno mutamento nel mondo, diviene giovane. Ma perché adopra il suo corpo per il cibo, questo significa tutte le cose, le quali per divina providenza son generate nel Mondo, dovere ritornare in quel medesimo”. (Hieroglyphica di Orapollo, scrittore egiziano del V sec. dopo cristo).
L’Uroboro, o più semplicemente il serpente che si mangia la coda e la inghiotte, è uno dei simboli più curiosi ed enigmatici della storia. Esso è un cerchio senza inizio né fine, pare immobile ma è in eterno movimento. . Esso sta ad indicare l’esistenza di un nuovo inizio che avviene dopo ogni fine. È simbolo di tempo ciclico, dell’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, rappresenta l’infinito, l’eternità, l’immortalità e perciò
la perfezione.
Il “Serpens qui caudam devorat”, è raffigurato metà bianco e metà nero, cioè come Yin e Yang, simboli della tradizione del Taoismo cinese, che riportano alla conflittualità degli opposti ed al loro reciproco interagire.
PERCHÉ IL SERPENTE
Ma perché tra tanti animali è stato utilizzato proprio il serpente? Il serpente è un rettile che fa la muta, in sostanza, cambia spesso pelle. Ringiovanisce ogni volta ed è in continuo cambiamento. Inoltre, come già spiegato, è da sempre simbolo di dualismo, male e bene in un unico corpo.
L’UROBORO E L’ETERNO RITORNO
In filosofia l’Uroboro è la rappresentazione, sotto forma animalesca, dell’immagine dell’Eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche. Secondo il filosofo, la realtà è destinata a ripetersi infinite volte, in maniera identica, tale che gli eventi non possano essere cambiati. In questo modo Nietzsche nega il meccanismo e afferma, per negazione, che la vita scompare una volta e per sempre: egli ritiene che il legame di causa ed effetto sia solo un modo per dominare la realtà e che il finalismo sia solo un tentativo di dare un senso all’esistenza umana.
Il mito dell’eterno ritorno venne teorizzato per la prima volta dal filosofo in “Gaia Scienza“ attraverso il discorso di un demone: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere”!
Il tempo non ha quindi né inizio né (ne ma tantomeno un obiettivo, un senso. L’uomo è destinato a ripetersi continuamente, è esso stesso parte dell’eternità, nonostante questa non abbia un vera importanza o traguardo. Nietzsche considerava l’idea dell’eterno ritorno ” Der schwerste Gewicht”, il fardello più pesante. Una brillante esemplificazione di questo concetto è espressa nel romanzo di Milan Kundera “l’insostenibile leggerezza dell’essere”, dove segue:
“Nel mondo dell’eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco per ché Nietzsche chiamava l’idea dell’eterno ritorno il fardello più pesante (das schwerste Gewicht).
Se l’eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza. Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d’amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell’uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pe sante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tan to più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza”?
Chiara Iengo